La fame di contatto

Federica

Federica

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su telegram
Condividi su whatsapp
Condividi su email

Con lo scopo di comprendere e approfondire ulteriormente i modi in cui i miei pazienti si relazionano con me e con gli altri, mi soffermo anche sulla comunicazione che mettono in atto attraverso il loro modo di dare e ricevere “carezze”, utilizzando il termine nell’accezione classica dell’Analisi Transazionale, cioè come mezzo per essere riconosciuti dagli altri. Per quanto riguarda le carezze, Berne (1961) ha denominato “fame” questi bisogni biologici e psicologici di riconoscimento che l’uomo cerca, come può, di soddisfare, a volte preferendo le carezze negative all’assenza delle stesse. Secondo Steiner (1974), infatti, quando un bambino vive in un contesto in cui non è presente un libero scambio di carezze positive, pur di averne si accontenta anche di quelle negative. Queste forme di riconoscimento sia positive che negative, alla pari del contatto fisico, esercitano una stimolazione cerebrale sul bambino che per mezzo di esse sente di esistere per le persone che lo circondano (James & Jongeward, 1971).

Le carezze possono essere classificate secondo la modalità di espressione in: fisiche; verbali; mimiche o non verbali. Secondo la direzione, possono essere: condizionate, se elargite come conseguenza di un comportamento; incondizionate, se elargite per il modo di essere della persona. A seconda dell’intento che anima chi le offre: positive, se recano un messaggio “tu sei ok”; negative, se portano un messaggio “tu non sei ok”. Secondo l’esito: costruttive, quando producono un aumento del senso di Okness del ricevente; improduttive, quando non apportano alcuna crescita; distruttive, quando aumentano il senso di non – Okness del ricevente.

Tra queste diverse tipologie di carezze, quelle riguardanti modalità, direzione e intento sono determinate da chi le offre, mentre solo l’esito è determinato da chi le riceve (Moiso & Novellino, 1982) ed è quindi soggetto ad interpretazione. Lo scambio di carezze costituisce una transazione fondamentale del rapporto sociale in quanto fin dalla più tenera età (Berne, 1964a) esse possono essere dirette a uno qualsiasi degli Stati dell’Io del bambino. Con il passare del tempo e la ripetizione delle carezze, lo Stato dell’Io che ne ha ricevute di più diventerà quello dominante nel funzionamento dell’individuo (Klein, 1983).

Sempre il bisogno di stimoli, quindi di contatto e relativi rapporti, porta ad esigere che si stabiliscano situazioni e relazioni in cui le carezze possano essere scambiate attraverso la strutturazione del tempo (Woollams & Brown, 1978). Nella pratica clinica analizzando questi sei modi di strutturare il tempo, con i propri vantaggi e svantaggi, ho avuto la possibilità di comprendere meglio i rapporti interpersonali dei miei pazienti.

Mediante l’isolamento l’individuo può allontanarsi dagli altri mentalmente o fisicamente, affidandosi a se stesso come unica fonte di carezze. I rituali sono scambi transazionali perfettamente prevedibili e schematizzati, che possono essere informali o rispondenti a ben precisi cerimoniali (Berne, 1964a). I passatempi sono transazioni complementari semiritualistiche che rappresentano il procedimento abituale di selezione sociale che precede i giochi e l’intimità. L’attività è il modo più diffuso, comodo, utile e conveniente di strutturare il tempo (Berne, 1961) in quanto l’energia della persona è diretta verso oggetti, compiti, o idee (Woollams e Brown, 1978) attraverso cui egli tenta di gestire la propria realtà esterna nel migliore dei modi (Harris, 1967).

Proseguendo invece per quanto riguarda i modi in cui viene soddisfatta la fame di struttura, il gioco rappresenta una serie progressiva di scambi ripetitivi, volte ad ottenere un risultato ben definito e prevedibile, mediante la collezione di carezze negative (Berne, 1972). Esso comporta sempre, per chi vi partecipa, uno scambio di svalutazioni a livello psicologico e un ben definito tornaconto (Stewart & Joines, 1987). L’intimità è una relazione disinteressata che si basa su un dare e un ricevere, privo di ipocrisia e di forme di sfruttamento reciproco (Berne, 1964a); comporta uno scambio libero e aperto di sentimenti, pensieri e vissuti (Moiso & Novellino, 1982) tra individui, e veniva considerata da Berne (1964b) uno degli obiettivi di ogni terapia.

Boyd e Boyd (1980) suggeriscono l’aggiunta del “Play” (divertimento) come scalino successivo al gioco, vista la troppa distanza e differenza di transazioni tra quest’ultimo e l’intimità. Il divertimento permette di collezionare carezze positive, può essere ottenuto individualmente o tra più persone e può rappresentare un tentativo di avvicinamento che permette all’individuo di capire se può e/o vuole diventare intimo con una delle persone con cui si sta divertendo (Boyd & Boyd, 1980).

Bibliografia

  • Berne, E. (1961). Analisi Transazionale e Psicoterapia. Roma: Astrolabio, 1971.
  • Berne, E. (1964a). “Ciao!”… e poi? Milano: Bompiani, 2005.
  • Berne, E. (1964b). A che gioco giochiamo. Milano: Tascabili Bompiani, 2004.
  • Boyd, L. W., & Boyd, H. S. (1980). Play as a time structure. TAJ, 10, 1, 5-7.
  • Harris, A. T. (1967). Io sono OK, Tu sei OK. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 1986.
  • James, M., & Jongeward, D. (1971). Nati per vincere. Milano: Edizioni San Paolo, 1987.
  • Klein, M. (1983). L’autoanalisi transazionale. Roma: Astrolabio, 1984.
  • Moiso, C., & Novellino, M. (1982). Stati dell’Io. Roma: Astrolabio.
  • Steiner, C. M. (1974). Copioni di vita. Milano: Edizione La Vita Felice, 2008.
  • Stewart, I., & Joines, V. (1987). L’Analisi Transazionale. Milano: Garzanti editore, 1996.
  • Woollams, S., & Brown, M. (1978). Analisi Transazionale. Assisi: Cittadella, 2003.