L’approccio contrattuale nel processo terapeutico

Federica

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Caratteristica centrale dell’Analisi Transazionale è l’utilizzo del contratto come accordo bilaterale, in cui terapeuta e paziente si mettono in gioco per delineare insieme la meta e i confini entro cui procedere (Berne, 1966). Il contratto rappresenta il risultato finale del processo di contrattazione, cioè un impegno esplicito tra paziente e terapeuta che, attraversando diverse tappe, dalla descrizione del problema da risolvere alle verifiche del contratto, giunge alla conclusiva dichiarazione su come il lavoro fatto da paziente e terapeuta verrà applicato nella vita quotidiana del paziente stesso (Zalcman, 1980).
L’AT, in quanto approccio contrattuale si basa sulla concezione dell’essere umano tipica della filosofia dell’Okness, a cui anche io faccio riferimento nel mio lavoro clinico. Questa concezione si sviluppa a partire dalla possibilità che tutti hanno di imparare a prendere le proprie decisioni ed esprimere i propri sentimenti (James & Jongeward, 1971); infatti, tanto l’analista quanto l’analizzato hanno il diritto, la responsabilità e la capacità, di portare avanti la propria vita nel rispetto di sé e dell’altro. Essendo quindi il paziente potenzialmente A, è in grado di autodeterminare il suo futuro, e nonostante le difficoltà del momento egli può usufruire della contrattazione per definire gli obiettivi che riconosce come importanti (Romanini, 1999).
Gli obiettivi sono rinnovabili durante tutto il processo terapeutico (Stewart & Joines, 1987) ed è proprio questa flessibilità che, secondo Loomis (1982), permette al paziente di cambiare nel rispetto dei suoi tempi. A tal proposito facendo riferimento a M. e all’esperienza fatta con lui, posso dire che dopo aver iniziato ad acquisire maggiore consapevolezza rispetto alle sue problematiche interpersonali e a quanto esse fossero legate alle sue dinamiche interne, ha ridefinito e specificato il suo obiettivo; ha “ascoltato” sé stesso e quelli che erano i suoi desideri del momento e senza ricorrere alla sua ricerca di perfezione, ha scelto di lavorare con me sui suoi limiti, scegliendo di accettarli come parte di sé, tenendo ben presente la flessibilità contrattuale che lo ha fatto sentire libero di decidere su cosa lavorare. Il contratto ha fornito al processo terapeutico una direzionalità chiara e, rappresentando al tempo stesso una base da cui partire, ma anche e soprattutto un punto di arrivo rispetto al quale potranno essere misurati i successi ottenuti in sede di processo (Goulding, 1975), sono convinta che ciò limiterà, come è stato fino ad oggi, l’instaurarsi di una relazione di dipendenza.
Berne (1966) distingue tra contratto stipulato in un’istituzione pubblica e contratto stipulato nella pratica privata. In entrambi i casi affinché l’accordo sia valido occorre stipulare tre tipi di contratti: amministrativo; professionale e psicologico. Quello di tipo amministrativo riguarda il processo come descrizione dei confini del rapporto tra terapeuta e paziente, definendo le regole del setting, la durata e la frequenza delle sedute, il luogo in cui si svolgono, l’onorario, le modalità di procedimento delle sedute e la reperibilità del terapeuta. Il contratto professionale come contenuto, stabilisce le mete del cambiamento ed è importante che siano chiare, comprensibili e formulate in termini osservabili (Stewart & Joines, 1987). Nonostante sia il terapeuta che il paziente inizialmente entreranno nel rapporto con uno scopo manifesto, ve ne sarà anche uno latente di tipo psicologico. Il contratto psicologico, infatti, riguarda i possibili messaggi ulteriori che il terapeuta ha il compito di esplicitare per fare fronte ai sabotaggi in cui il paziente potrebbe incorrere, cosicché entrambe le parti potranno valutare il programma nascosto a fronte della realtà (Stewart & Joines, 1987).
Nella pratica clinica faccio riferimento ai quattro criteri di validità del contratto come proposti da Steiner (1974). Il contratto che stipulo insieme al mio paziente deve quindi basarsi su: consenso reciproco, implica una richiesta d’aiuto da parte del paziente che sceglie di iniziare un percorso, vi è poi la messa a disposizione da parte del terapeuta delle sue competenze per concludere con l’accettazione da parte del paziente di quanto proposto; l’esistenza di un equo corrispettivo che eviti il Salvataggio del paziente ad opera del terapeuta e trasformi la relazione in uno scambio paritario in cui il terapeuta offre un servizio in cambio di denaro; il criterio della competenza riguarda la capacità contrattuale limitata di alcuni pazienti (minori, incompetenza dovuta a limitate facoltà mentali, intossicati da droghe, alcool o farmaci); lo scopo lecito riguarda la necessità che il contratto, e il corrispettivo della prestazione stessa, debbano rispettare la legge e le norme morali. I Goulding (1979) specificano ulteriormente l’argomento, definendo alcuni contratti inaccettabili: quelli genitoriali basati sul “dovrei”; quelli nei quali l’aspettativa è di cambiare qualcun altro; e quelli che sottintendono un livello ulteriore e quindi un gioco psicologico.
Nei casi gravi i Goulding (1979) prevedono la stipulazione di contratti appositi per prevenire le vie d’uscita copionali come il suicidio, l’omicidio e la psicosi. Si tratta di contratti a breve termine, con i quali il paziente si impegna attraverso il suo A a prevenire acting out tragici. I clienti con brevi e acuti episodi psicotici, possono contrattare di non diventare psicotici in reazione a futuri stress, esaminando i loro problemi, le alternative a loro disposizione, prestando attenzione e rendendosi consapevoli dei segnali di pericolo. Questi contratti hanno la precedenza su qualunque altro contratto che un paziente potenzialmente suicida, omicida o psicotico possa voler stipulare (McClure Goulding & Goulding, 1979).
Per distinguere un contratto, è utile la classificazione proposta da Holloway (1977) secondo cui esso può essere di controllo sociale o di autonomia. Il primo si focalizza sul cambiamento di uno specifico comportamento che interferisce con un adattamento soddisfacente per il paziente; il secondo mira a mettere fine al copione della persona e a ristabilire la consapevolezza, la spontaneità e l’intimità.
Con M. infatti stipulare direttamente un contratto di autonomia sarebbe stato inappropriato e fuori da quelle che erano le sue consapevolezze del momento; il contratto di esplorazione prima, e quello di controllo sociale poi, hanno rispettato i suoi tempi, il paziente mi ha messa alla prova e grazie al passare del tempo, al mio superamento dei suoi test e al rafforzamento dell’alleanza ha iniziato a mostrarmi lati del suo carattere che abitualmente non mostrava. Durante la stipulazione del contratto con M. ho evitato di colludere con lui mediante una relazione di tipo complementare per non cadere in una situazione di identificazione proiettiva (o controtrasferale). Infatti, come descritto nel dettaglio a p. 35 e 36, anche quando il paziente mi ha richiesto dei consigli, ho preferito non rispondere ad una transazione di transfert (Berne, 1961), per non svalutarlo, né dargli la possibilità in seguito di giocare a “magnifico professore” nei suoi momenti depressivi. Il tutto sempre con lo scopo di rafforzare la sua capacità decisionale e il suo contatto con una realtà in cui neanche io, pur essendo la sua psicologa, ho la possibilità di conoscere qual è la cosa giusta da fare in ogni momento.
Il cambiamento a cui solitamente miro, insieme ai pazienti in generale e a questo nello specifico, deve essere sicuro, raggiungibile, specifico, osservabile, espresso in termini positivi e con un linguaggio chiaro e, rispecchiando un bisogno autentico della persona, deve essere formulato dall’A con la cooperazione del BL ed essere congruo con il sistema di valori proprio del paziente, per avere anche il sostegno del suo G, come descritto da Stewart & Joines (1987).